di Goffredo Fofi
da Lo Straniero
Il 26 giugno scorso è morta nel mare di Formia, colpita improvvisamente da ictus, all’età di 72 anni la nostra amica e collaboratrice Fabrizia Ramondino. A giudicare la sua opera letteraria, composta di romanzi e preferibilmente di racconti e divagazioni ai limiti dell’autobiografia e dell’inchiesta, o più semplicemente del resoconto fortemente poetico di “cose viste” e ragionate nel corso di una vita ben spesa, saranno in futuro molti, perché nel quadro della letteratura italiana degli ultimi decenni il nome di Fabrizia è centrale, per originalità e per profondità. Ma, come sappiamo tutti molto bene, il chiasso mediatico premia anzitutto chi vuol farsene premiare ed esclude anzitutto chi vuol farsene escludere… e certamente Fabrizia non amava il chiasso mediatico. Ciò nonostante, aveva molti affezionatissimi lettori e lettrici, e nessuno che abbia mai letto una sua pagina potrebbe mettere in discussione l’originalità e la bellezza della sua prosa. Fabrizia era un’irregolare, ma nel modo in cui lo sono state le più grandi delle nostre scrittrici, Elsa Morante e Anna Maria Ortese, entrambe frequentate e amate da Fabrizia. Fui proprio io, se ben ricordo, a introdurla alla conoscenza personale di Elsa, ma fu lei a insistere con me, al tempo di “Linea d’ombra”, perché si rileggesse e prendesse in considerazione l’opera di Anna Maria, con la quale era in corrispondenza da tempo. Erano loro le sue principali maestre in fatto di letteratura, anche se la sua cultura era vastissima e aveva saputo approfittare dei suoi vagabondaggi biografici, tra la Spagna dell’infanzia (in tempo di guerra: il padre era un diplomatico) e la Germania della prima gioventù (tra Machado e Rilke, potremmo dire), ed era anche una profonda conoscitrice di cultura francese e anglo-americana. Ma Morante e Ortese erano ben vive e con loro si poteva discutere e confrontarsi direttamente, non solo con la loro opera.
Ognuno ha molti maestri, ma alcuni sono più importanti di altri. Senza considerare che una scrittrice, in Italia, può trovare numericamente meno modelli tra le scrittrici di quanti non possa trovarne tra gli scrittori. Fabrizia non era peraltro semplicemente “una scrittrice”, e una grande scrittrice, è stata anche un’educatrice (e noi di “Lo straniero” ci gloriamo di aver ripubblicato ancora recentemente il suo bellissimo testo sulla storia dell’Associazione risveglio Napoli o Arn, “L’isola dei bambini”, esemplare per la fusione, in lei naturale e immediata, tra testimonianza e letteratura, anzi poesia). Ed è stata una militante che, per esempio nel ’68, ha fondato e animato a Napoli uno dei gruppi più intellettuali e aperti, e quindi meno leninisti e più perdenti, il Centro di coordinamento campano, con il torinese Giovanni Mottura, venuto da Danilo Dolci e dai “Quaderni Rossi”, e con il calabrese Enrico Pugliese, venuto dall’Università di Portici e dall’insegnamento di Manlio Rossi-Doria. Diversamente da loro o molto più di loro, Fabrizia era anche una “populista”, una parola che non sempre è stata un insulto, quando un popolo con cui e per cui operare esisteva, ed era pieno di vitalità e di speranza. La sua matrice politica era in definitiva quella del socialismo più anarchico, e dell’anarchismo ella fu sempre attentissima studiosa e cultrice, tanto dei classici che delle figure contemporanee più rappresentative, che conobbe e frequentò da vicino, da Borghi a Capitini, da Cesare Zaccaria (che succedette a Errico Malatesta nella direzione di “Volontà” e che di Malatesta curò le opere, e fu però anche vicino ai gruppi dei Cemea e al Movimento di cooperazione educativa) a Carlo Doglio. Sul versante socialista, una sua importante maestra fu certamente Vera Lombardi, che è stata tra le più instancabili organizzatrici di gruppi di iniziativa politica e pedagogica nei quartieri di Napoli e che fu l’anima dell’Arn.
Si sarà capito che Fabrizia non era un personaggio facilmente classificabile, né sul versante politico né sul versante letterario, e che nel suo anarchismo confluivano tantissime acquisizioni dirette, di esperienza vissuta, e tantissime letture. Ma era proprio questo il suo fascino, in una diversità spesso sofferta e nevrotica quasi per obbligo – non nascondeva la sua “malattia”, l’alcol, dalla quale sapeva rapidissimamente risollevarsi ma nella quale altrettanto rapidamente poteva ricadere – e in una capacità straordinaria di mai arrendersi, di sempre ricominciare, e di essere estremamente attenta, pur nel suo disordine, ai grandi e ai piccoli mutamenti del mondo e delle persone, dalla parte degli oppressi. Ha scritto libri bellissimi su Napoli, il più incerto, ma non il meno affascinante dei quali è il romanzo sulla generazione del ’68 “Un giorno e mezzo”. Fui io a portare alla Feltrinelli la sua inchiesta sui disoccupati, che venne molto prima, e che è il suo primo libro, e quando Laura Gonsalez, sua e mia grande amica, mi mostrò i primi capitoli di “Althénopis”, la sua prima opera narrativa (una Napoli vecchia e anzi antica e non “neapolis” città nuova) le mie reazioni furono complicate: da un lato, di irritazione perché si era messa a far letteratura invece che dedicarsi all’inchiesta e alla politica; e dall’altro di entusiasmo perché scoprivo in Fabrizia una grande scrittrice, una vera scrittrice, in un’epoca in cui il movimento aveva decretato il disinteresse per la letteratura e l’arte, e lasciava loro le energie più fiacche, o ideologiche o secondarie. Ha scritto molti libri assai belli, da allora, come “L’isola riflessa”, o “Passaggio a Trieste”, che è opera di gruppo, e altre opere composite, mai di rigida struttura, sempre nuove e “disponibili”. Eccelleva nel racconto – come in “Storie di patio” o in “In viaggio”. E a parer mio “Il calore” (Nottetempo) e “Arcangelo” (Einaudi) contengono alcuni tra i racconti più belli della nostra letteratura recente, e sono un ritratto formidabile e vario delle mutazioni meridionali del dopo ’68 – antropologiche ed economiche: dalla vecchia “questione meridionale” a una brutta modernità o post-modernità di nuove mafie e nuovi denari, ma su antichi scenarii di malgoverno. “La Via”, il suo ultimo libro, uscito in libreria nel giorno stesso della sua morte, vuole essere un romanzo, ma è in realtà un arazzo formato da tante storie che, come nella letteratura più lontana o nelle narrazioni orali orientali, molti personaggi raccontano a un narratore o si raccontano tra di loro. Riguarda il paese di Acraia, cioè Itri, dove Fabrizia si era trasferita a vivere da molti anni, e la Via è l’Appia, quella di un tempo e quella di oggi. Personaggi che sembrano favolosi e sono perlopiù ben veri, o hanno veri riferimenti, vengono al proscenio per riferire di vitali speranze e conflitti, di esperienze picare e variegate, di rispetto delle memorie e dei morti e di attenzione a un nuovo che sconcerta, in cui i vecchi vizi si sommano a nuovi, e più gravi, perché estranei ormai a un contesto di comunità e di verità.
Fino all’ultimo, Fabrizia Ramondino è stata al centro di una vasta rete di amici, di ogni ceto e di ogni paese. È stata sorella a tanti, e sarà molto difficile per tutti accettare di non averla più tra noi.
Ognuno ha molti maestri, ma alcuni sono più importanti di altri. Senza considerare che una scrittrice, in Italia, può trovare numericamente meno modelli tra le scrittrici di quanti non possa trovarne tra gli scrittori. Fabrizia non era peraltro semplicemente “una scrittrice”, e una grande scrittrice, è stata anche un’educatrice (e noi di “Lo straniero” ci gloriamo di aver ripubblicato ancora recentemente il suo bellissimo testo sulla storia dell’Associazione risveglio Napoli o Arn, “L’isola dei bambini”, esemplare per la fusione, in lei naturale e immediata, tra testimonianza e letteratura, anzi poesia). Ed è stata una militante che, per esempio nel ’68, ha fondato e animato a Napoli uno dei gruppi più intellettuali e aperti, e quindi meno leninisti e più perdenti, il Centro di coordinamento campano, con il torinese Giovanni Mottura, venuto da Danilo Dolci e dai “Quaderni Rossi”, e con il calabrese Enrico Pugliese, venuto dall’Università di Portici e dall’insegnamento di Manlio Rossi-Doria. Diversamente da loro o molto più di loro, Fabrizia era anche una “populista”, una parola che non sempre è stata un insulto, quando un popolo con cui e per cui operare esisteva, ed era pieno di vitalità e di speranza. La sua matrice politica era in definitiva quella del socialismo più anarchico, e dell’anarchismo ella fu sempre attentissima studiosa e cultrice, tanto dei classici che delle figure contemporanee più rappresentative, che conobbe e frequentò da vicino, da Borghi a Capitini, da Cesare Zaccaria (che succedette a Errico Malatesta nella direzione di “Volontà” e che di Malatesta curò le opere, e fu però anche vicino ai gruppi dei Cemea e al Movimento di cooperazione educativa) a Carlo Doglio. Sul versante socialista, una sua importante maestra fu certamente Vera Lombardi, che è stata tra le più instancabili organizzatrici di gruppi di iniziativa politica e pedagogica nei quartieri di Napoli e che fu l’anima dell’Arn.
Si sarà capito che Fabrizia non era un personaggio facilmente classificabile, né sul versante politico né sul versante letterario, e che nel suo anarchismo confluivano tantissime acquisizioni dirette, di esperienza vissuta, e tantissime letture. Ma era proprio questo il suo fascino, in una diversità spesso sofferta e nevrotica quasi per obbligo – non nascondeva la sua “malattia”, l’alcol, dalla quale sapeva rapidissimamente risollevarsi ma nella quale altrettanto rapidamente poteva ricadere – e in una capacità straordinaria di mai arrendersi, di sempre ricominciare, e di essere estremamente attenta, pur nel suo disordine, ai grandi e ai piccoli mutamenti del mondo e delle persone, dalla parte degli oppressi. Ha scritto libri bellissimi su Napoli, il più incerto, ma non il meno affascinante dei quali è il romanzo sulla generazione del ’68 “Un giorno e mezzo”. Fui io a portare alla Feltrinelli la sua inchiesta sui disoccupati, che venne molto prima, e che è il suo primo libro, e quando Laura Gonsalez, sua e mia grande amica, mi mostrò i primi capitoli di “Althénopis”, la sua prima opera narrativa (una Napoli vecchia e anzi antica e non “neapolis” città nuova) le mie reazioni furono complicate: da un lato, di irritazione perché si era messa a far letteratura invece che dedicarsi all’inchiesta e alla politica; e dall’altro di entusiasmo perché scoprivo in Fabrizia una grande scrittrice, una vera scrittrice, in un’epoca in cui il movimento aveva decretato il disinteresse per la letteratura e l’arte, e lasciava loro le energie più fiacche, o ideologiche o secondarie. Ha scritto molti libri assai belli, da allora, come “L’isola riflessa”, o “Passaggio a Trieste”, che è opera di gruppo, e altre opere composite, mai di rigida struttura, sempre nuove e “disponibili”. Eccelleva nel racconto – come in “Storie di patio” o in “In viaggio”. E a parer mio “Il calore” (Nottetempo) e “Arcangelo” (Einaudi) contengono alcuni tra i racconti più belli della nostra letteratura recente, e sono un ritratto formidabile e vario delle mutazioni meridionali del dopo ’68 – antropologiche ed economiche: dalla vecchia “questione meridionale” a una brutta modernità o post-modernità di nuove mafie e nuovi denari, ma su antichi scenarii di malgoverno. “La Via”, il suo ultimo libro, uscito in libreria nel giorno stesso della sua morte, vuole essere un romanzo, ma è in realtà un arazzo formato da tante storie che, come nella letteratura più lontana o nelle narrazioni orali orientali, molti personaggi raccontano a un narratore o si raccontano tra di loro. Riguarda il paese di Acraia, cioè Itri, dove Fabrizia si era trasferita a vivere da molti anni, e la Via è l’Appia, quella di un tempo e quella di oggi. Personaggi che sembrano favolosi e sono perlopiù ben veri, o hanno veri riferimenti, vengono al proscenio per riferire di vitali speranze e conflitti, di esperienze picare e variegate, di rispetto delle memorie e dei morti e di attenzione a un nuovo che sconcerta, in cui i vecchi vizi si sommano a nuovi, e più gravi, perché estranei ormai a un contesto di comunità e di verità.
Fino all’ultimo, Fabrizia Ramondino è stata al centro di una vasta rete di amici, di ogni ceto e di ogni paese. È stata sorella a tanti, e sarà molto difficile per tutti accettare di non averla più tra noi.